<p>Un film che risuona, o per meglio dire, riecheggia, fin dal titolo. Possente, gigantesco, pensato seguendo le logiche del miglior cinema di Hollywood, tra l'enfasi e la spettacolarità. Un cinema che sta mancando, e che si sta rivolgendo solo a un pubblico distratto. Uno spettacolo, vi anticipiamo, che inizia fin dalla prima sequenza, pensata da Ridley Scott seguendo le logiche di certi kolossal del passato: “Ben-Hur”, “Quo vadis?” e pure “Spartacus”, con tanto di citazione. Ecco, “Il Gladiatore II”, nella sua turgida ricerca della maestosità e dell'epica, non è solo un grande sequel, ma è anche l'intuizione artigiana di un cinema legato al passato ma, intanto, straordinariamente proiettato verso il futuro. Viste le premesse, non era facile né tantomeno scontato che il risultato, alla fine, superasse addirittura le aspettative. Del resto, è tutt'altro che semplice realizzare un seguito di una pellicola leggendaria e appartenente ad un passato oggi molto lontano. Eppure, con rigore, lucidità e intuizioni narrative, Scott è riuscito a mantenere lo spirito originale de “Il gladiatore” (uscito venticinque anni fa), pur strutturando un film a sé stante, che ha una sua forte propensione contemporanea, quasi visionaria. E potremmo dire, senza paura di venir contraddetti, che “Il Gladiatore II”, data la sceneggiatura firmata da David Scarpa, è anche il titolo più politico e politicizzato del regista. E visti i tempi, in cui pochi autori hanno il coraggio di dire ciò che pensano (in un film o in un'intervista), quella di Scott è una forte dichiarazione di intenti. Sangue, sabbia, vendetta e redenzione, lungo un viaggio a tratti lisergico e spirituale. “Il gladiatore II” è la parafrasi anticata di un mondo, però, drammaticamente moderno. Un mondo avvilito dallo status quo, dall'ossessione per il potere, dalla guerra come habitat naturale di una classe politica rivoltante e senza scrupoli (la stessa con cui, sfortunatamente, ci troviamo a confrontarci). Per questo, la eco dello script ha i giusti riverberi, e la giusta precisione linguistica nel proporre una Roma sull'orlo del collasso.</p>
<p>Vent'anni dopo la morte di Massimo Decimo Meridio, ecco che l'eredità verrà colta da Lucio Vero (Paul Mescal), ridotto in schiavitù dopo essere stato deportato dalla Numidia (come veniva chiamato il Nord-Africa nel 200 d.C.) conquistata dalle legioni di Marco Acacio (Pedro Pascal), sotto il dominio degli imperatori Caracalla e Geta (Fred Hechinger e Joseph Quinn). Arrivato nell'Urbe, Lucio verrà utilizzato come gladiatore dal crudele Marcrinus (Denzel Washington, una delle sue migliori prove recenti), schiavista e politicante che trama per conquistare gli allori dell'imperatore.</p>
<p>Ciò che fa la differenza ne “Il Gladiatore II”, oltre al legame generazionale tra Lucio e Massimo (una sorta di passaggio, anch'esso leggibile attraverso una focalizzazione contemporanea), è infatti la traccia politica di una storia, diremmo, misurata al centimetro da Scott, che come fatto da Francis Ford Coppola in “Megalopolis” segna un parallelo lampante tra l'Impero Romano e gli Stati Uniti d'America. Il sogno di Roma, che tuona e risuona nell'indole di Lucio e poi in quello di Marco Acacio, ormai disilluso, sarà la stessa promessa tradita rispetto alla libertà del sogno americano. Dunque, ribaltando le prospettive, e seguendo una messa in scena di grande fattura, riflettendo al meglio i colori ocra della fotografia (John Mathieson) e l'imponente colonna sonora (Harry Gregson-Williams, che non tradisce lo score ormai epocale di Hans Zimmer e Lisa Gerrard), Ridley Scott parla di democrazia, di oppressione, di civiltà, di rivoluzione e di resistenza. E lo fa con un linguaggio cinematografico straordinariamente pop, senza lesinare appunto un'indole spettacolare che, tra combattimenti e arene, fino al cielo di Roma, è in grado di far vibrare, letteralmente, la poltrona su cui siete seduti. Con un appunto: per favore, non cercate veridicità o attinenza storica, il cinema non è pensato per essere storiograficamente accurato.</p>
<p>Allora, se “Il gladiatore II” è la digressione politicizzata di Ridley Scott, la figura dirompente di Lucio, per certi versi, è ancora più potente rispetto a quella che echeggia di Massimo Decimo Meridio (che non c'è, ma che in fondo è come se ci fosse): un simbolo riottoso e nobile, propenso alla ricerca della giustizia e della libertà, cogliendo al meglio il principio odierno di uomo e di eroe, allungandosi verso la figura tragica di Marco Acacio, metafora invece di un'ideale tradito e svilito. Per questo Lucio è la rivalutazione stessa del sogno di Roma, scevro dall'impalcatura di un Impero Occidentale destinato a sgretolarsi. Quell'impero che, oggi, duemila e cinquecento anni dopo, sta tradendo i propri principi e i propri valori, abbracciando e sostenendo coscientemente un'epoca buia di inquietudine e soggiogante paura, travolgendo quel fragile sogno che si poteva soltanto sussurrare.</p>