La La Land

Lui ce l'ha fatta. Damien Chazelle, regista e sceneggiatore trentunenne, vanta un paio di candidature agli Oscar, e il suo secondo film, il trascinante e viscerale “Whiplash”, ne ha vinti tre. Adesso possiamo dirlo con certezza: ce l'ha fatta, è uno su mille, anzi uno su un milione, a vivere il sogno che noi comuni mortali possiamo accarezzare e ammirare sul grande schermo. Eppure, dopo averci mostrato il sangue, la cieca determinazione e i sacrifici che servono per realizzare i propri sogni, con “La La Land” ce ne racconta la futilità: la loro natura illusoria e fragile, caduca e artificiale. E così facendo li celebra nella maniera più commovente, raccontando il cinema, la musica, l'arte come un'effimera ed indimenticabile storia d'amore.
Dobbiamo ammetterlo, una certa tensione, un certo nervosismo ha accompagnato l'attesa nei confronti di “La La Land”, dopo quella magnifica sorpresa che era stato “Whiplash”: e se quelli atmosfere sognanti, quegli sguardi carichi di emozioni, quei vibranti tableaux vivants mostrati nelle immagini promozionali preludessero solo a un vuoto e sconclusionato esercizio di stile?
Solo gli innamorati possono avere il cuore spezzato, e solo i sognatori possono essere delusi. Questo timore significa che siamo ancora dentro il sogno, ancora pieni di passione per il mezzo espressivo che abbiamo in sorte di seguire e condividere; che siamo sulla stessa lunghezza d'onda di questo giovane e straordinario regista, capace di raccontarci l'insensatezza dell'oggetto del nostro amore rendendocelo ancora più prezioso. Non c'è tempo per i convenevoli con Chazelle. La città la percorriamo in lungo e in largo da sempre, conosciamo le sue lusinghe e le sue trappole. Sembra impossibile tornare a guardarla da lontano con freschezza e curiosità; almeno fino al momento in cui si viene travolti dalla sequenza iniziale di “La La Land”, uno stupefacente, straripante, gioioso piano sequenza coreografato al millimetro in cui, senza nemmeno iniziare a mostrare i suoi eroi, Chazelle ci racconta l'energia e l'entusiasmo di un cuore colmo di aspettative, aperto all'avventura di una vita. E così, a cinque minuti dall'inizio del film, il timore svanisce in maniera naturale, come le note finali dell'ouverture che lasciano spazio ai protagonisti, all'intreccio, ai numeri culminanti, alle lacrime, agli applausi scroscianti.
L'amore che nasce è l'archetipo tra gli archetipi eppure non ci stanca mai. Certo, aiuta lo sguardo di un artista che riesce a corteggiare lo stereotipo guardando oltre, a un disegno ambizioso e a una dimensione complessa e poliedrica, meta-cinematografica e meta-artistica, senza perdere di vista l'autenticità dei sentimenti e del bisogno che abbiamo gli uni degli altri. E aiuta l'elettrizzante alchimia di due attori forse mai così bravi che ballano una danza che conosciamo tutti a memoria con qualche esitazione, qualche impaccio che intenerisce e che rende la finzione evidente e irresistibile. Come la Old Hollywood a cui guarda con nostalgia, tra anacronismi, citazioni, gigantografie e murales, “La La Land” non mostra il volto discinto e scomposto dell'amore, ma ritrova la sensualità dello sfiorarsi delle dita, di labbra che non si decidono a toccarsi.
Forti di una regia sicura, di dialoghi curati che li accompagnano in maniera credibile attraverso le stagioni dell'amore di Mia e Sebastian, superando anche qualche cambio di passo che forse in un film meno sincero ed emozionante avremmo trovato forzato, Emma Stone e Ryan Gosling, che chiaramente non sono cantanti e ballerini, sono ipnotici soprattutto nei momenti musicali più semplici, seduti di fronte al piano, nel bel mezzo di un'audizione, su un pontile in compagnia di una coppia di sconosciuti. Momenti in cui il canto è (magnifica) recitazione, e in cui “La La Land” ci dimostra che niente trasmette un'emozione, ravviva un ricordo, celebra un'illusione nel momento stesso in cui ci sfugge come lo può fare a una canzone.
Mia e Sebastian, un'attrice e drammaturga in cerca di fortuna e un pianista che vuole salvare il jazz, sono il volto di un sogno già tramontato: come il musical, che un tempo era il genere cinematografico per eccellenza e adesso vive di anacronistici miracoli come “Moulin Rouge” (e come “La La Land”); come il jazz, quell'arte in cui solo la perfetta padronanza della tecnica e della partitura permette di creare, a ogni esibizione, qualcosa di diverso, e che oggi è diventato un cimelio in soffitta, un vecchio vinile che prende polvere in libreria, una contaminazione che si allaccia, non sempre improduttivamente, ai generi che piacciono ai giovani e che fanno vendere i dischi.
Eppure nulla di ciò che ancora ricordiamo è davvero perduto. Con trionfi come il tracking shot iniziale, la danza di Mia con le sue coinquiline, la funambolica scena della festa, Chazelle dimostra come l'immagine possa ancora oggi fondersi con l'elemento musicale con enorme forza espressiva. “La La Land” non è il lamento funebre del genere musical ma è una vitalissima celebrazione della sua natura e di tutto ciò che è stato e sarà sogno, arte e amore, per illusorio e artificiale che sia. Quando il meraviglioso finale ci tuffa nel musical vecchio stile à la Gene Kelly ritrovando l'ingenua, tangibile magia di un fondale di cartapesta, di una silhouette dietro uno schermo e di un passo di danza, siamo pronti a lasciarla andare senza rimpianti e con un sorriso.