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Fortunata

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Sergio Castellitto sta spolverando sornione il suo smoking: manca poco per raggiungere Cannes, dove il suo nuovo film, “Fortunata”, è in concorso nella sezione “Un certain regard”. È molto orgoglioso, si vede. Di se stesso, ovviamente, e per il lavoro ben fatto. Di sua moglie Margaret Mazzantini, che ha scritto il racconto da cui il film è tratto. Della famiglia che ha creato con Margaret e che ha partecipato con trepidazione alle emozioni suscitate da questo film in tutto il suo farsi. Che poi, più che una famiglia, è una tribù, un clan, un concentrato di simpatia e di intelligenza ironica: i “Castellitto’s”, li chiamano.

E poi Castellitto è soddisfatto perché questo film va contro l’afasia delle élite culturali altezzose e di sinistra che non sanno più guardare il mondo delle periferie urbane, degli esclusi, di chi sta fuori dai circuiti del perbenismo sociale. “Due mondi che non si parlano più, separati da un muro”, dice Castellitto. Fortunata, interpretata da Jasmine Trinca, cerca di spezzarlo, questo muro, e fallisce. E la trama racconta di come questa figlia delle borgate romane tenti la strada dell’emancipazione aprendo un salone di parrucchiera. “Ecco, appunto”, mi interrompe quasi con veemenza Castellitto, “quanti significati in tutte le stucchevoli ironie spocchiose dei colti sulle parrucchiere, sulle “sciampiste”. Mi pare proprio di sentirli, quelli che non vogliono guardare un mondo che invece aveva catturato l’immaginazione e la sensibilità di Pasolini, avversato dall’accademia dominante, o di Almodòvar, così attento a cogliere le sgrammaticature della realtà, con quelle donne dalle sagome rese quasi deformi per via delle cose che non vanno nel mondo. O di Claudio Caligari, nelle sue storie tossiche di emarginazione urbana. Fortunata ha una struttura drammaturgica semplice, ma è attraverso la semplicità che si coglie l’essenza della realtà, il male che la abita, la disperazione che l’affligge. Ecco lei, la parrucchiera, cerca di affrancarsi da un matrimonio fallito. Attraverso i soldi, oggi sembra questa la strada maestra. Ma soprattutto attraverso l’amore con un uomo del mondo che conta, che usa bene i congiuntivi, il mondo che non sa guardare al suo. E a quello di sua figlia”.

Dice però, Castellitto, di essere tornato con questo film in un luogo dello spirito che è anche la sua vita, il mondo in cui si è formato. “Sì, oggi è tutto cambiato, i colori, la lingua, il modo di vestire. Oggi in quelle borgate ci sono più bengalesi che autoctoni, diciamo così. Però io lì ci sono nato, via Tor de’ Schiavi, nel cuore di Centocelle. Dentro una famiglia solida, tradizionale, dominata dalla religione del lavoro oscuro e duro, la necessità aspra del lavoro, senza tante fantasie e grilli per la testa. Ero ancora un ragazzo e lavoravo per un’azienda che distribuiva giornali e in quella famiglia decisi di fare l’atto eversivo, la ribellione epocale, la rottura del vetro. Sì, decisi di lasciare il lavoro che avevo e di fare l’attore, una cosa bizzarra per quel mondo: che bisogno c’era che mi intestardissi per una strada che non si sapeva dove portava? E che lavoro era? Quando, con la famiglia riunita a tavola, scelsi di comunicare che volevo fare l’attore, uno dei fratelli mi ha interrotto fingendo di non aver capito: cosa, vuoi fare il dottore?. Dottore ancora ancora, ma l’attore, siamo impazziti?” Suo fratello reagì così, e suo padre? E sua madre? “Fu la rivelazione che nella mia famiglia era presente una faglia emotiva che divideva il mondo dei maschi, padre e fratelli, da quello femminile, madre e sorelle. I fratelli e mio padre reagirono con uno sconcertato silenzio, vedevano in quella mia scelta un deragliamento pericoloso, una ribellione da riportare all’ordine, il vetro che non doveva essere rotto. Le donne della famiglia invece furono quasi sedotte da quel gesto, come se io avessi avuto la capacità di interpretare un loro sogno, di rompere anche il loro vetro infrangibile. Ma forse no, sto sbagliando con i tempi”. In che senso, Castellitto? “In realtà l’ho capita dopo, questa storia della divisione tra il femminile e il maschile. Ho capito dopo quanto fosse più intelligente la sensibilità delle donne rispetto a noi uomini. Sì, ecco, l’intelligenza del sentire, se posso dire, che era quello delle donne della mia famiglia ma che ho afferrato e fatto mia grazie all’incontro con Margaret”.
Margaret. Cioè Margaret Mazzantini, protagonista in questa conversazione con Castellitto in tutto, davvero tutto, anche se fisicamente assente. Ma è ovunque: nei suoi sentimenti, nelle sue scelte, nel suo modo di vedere le cose. “Incontro questa donna a poco più di trent’anni, maschio tradizionale, a teatro. Una Dersu Uzala, non so se ricorda chi era, una creatura che esce dal bosco e che si sa mettere a rischio, un giardino in continua fioritura, perché un giardino finito è un giardino morto. Colpito dalla sua intelligenza del sentire, appunto, del saper guardare fuori, dell’affrontare il bene e il male intrecciati nelle persone e nell’umanità. Quando scrive un romanzo Margaret, invece di stare allo specchio come fanno molti suoi colleghi, si mette davanti a una finestra aperta”. Castellitto si interrompe e sorride: “vede, aveva ragione Dino Risi”. E che diceva Dino Risi per accostarlo a questa storia? “Diceva: come spiego a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando? Ecco, io, suo marito, non sua moglie, l’ho capito: quello è il suo lavoro, la sua scrittura. Poi certo ciascuno, guardando fuori, mette anche se stesso, le cose che ti stanno dentro. A una presentazione di Splendore, che parla di una storia tra maschi omosessuali, Alberto Asor Rosa ha detto che quello era il libro più autobiografico di Margaret. Non era un paradosso, aveva perfettamente ragione. Ma bisogna avere quello sguardo curioso, che spesso la letteratura, i media e anche la politica non hanno, per capire un mondo che non si riesce più a rappresentare”.
Ancora Margaret Mazzantini, e la sua famiglia che, mentre parliamo nello studio di Castellitto, non ci sono, ma è come se ci fossero sempre: “Con Margaret abbiamo fatto tante cose insieme, ma soprattutto la famiglia, una cosa viva che sta in piedi perché è piena di passioni. Anche di ironia, tanta ironia e autoironia. I miei figli mi prendono costantemente in giro. Hanno scoperto una app in cui ogni mia frase viene scolpita come su una lapide, mettendone in luce il lato ridicolo: Questa non è libertà, è anarchia, firmato Sergio Castellitto, oppure: A casa facciamo i conti, firmato Castellitto. Non potrei vivere senza questa continua e vitale presa in giro, questo riportare le cose alla realtà, questo stare insieme senza prendersi troppo sul serio, una palestra umana formidabile. Per capire che questa cosa dal nome antico, la famiglia, va ferocemente difesa, che è troppo facile da spezzare in un mondo che rompe tutto ciò che ha di più prezioso. È una sfida e la abbiamo accettata: senza tabù ogni sentimento duraturo diventa più vulnerabile, più fragile e dobbiamo difenderlo. Sono contento quando i nostri figli partono, indipendenti, vanno all’estero. Ma sono contento se ritornano, se continuano a prendermi in giro senza pietà”.

Castellitto, che ci fanno nel suo studio, uno accanto all’altro, i ritratti di Louis-Ferdinand Céline e della Madonna? “Sono il Bene e il Male, inscindibili, lo dico con ironia, beninteso. Céline è il coraggio di raccontare la disperazione umana, la Madonna il sacrificio che rappresenta un sentimento di purezza, di accoglienza. È tutto intrecciato, contaminato. Non c’è una superficie liscia. Come del resto ci ha insegnato il cinema italiano nei suoi momenti migliori, quando è stato il grande romanzo popolare dell’Italia contemporanea”. Se ne sente erede? “No, mi sento orfano. Orfano di Ettore Scola, di Mario Monicelli, di Marco Ferreri, che hanno saputo raccontare l’Italia e rappresentarla meglio di un trattato sociologico. Con una cura dei particolari che mi commuove ancora. Chissà quante volte ho rivisto la scena del Vedovo in cui Alberto Sordi si accorge che sua moglie Franca Valeri non è morta ed è tornata a perseguitarlo, per capire da un semplice gesto, da uno sguardo, che cosa è stata l’Italia, le sue emozioni”.  E con Fortunata ha voglia di raccontare l’Italia? “Magari, spero di esserci riuscito. Ma vorrei mettere un cartello all’ingresso dei cinema: Qui non si ride. Non fraintendetemi, figurarsi se ho qualcosa contro la risata, ma in questo film ho voluto raccontare l’angoscia delle anime deragliate. E magari il pubblico ha anche bisogno di questo, di vedere rappresentate le angosce, le tristezze. Sa che io ancora piango se penso a Violetta che nell’ultimo atto della Traviata cade e muore dopo aver tentato di alzarsi?”. E perché me lo dice? “Perché se si piange, ancora c’è vita”.

Scheda film: Fortunata

  • Nazione: Italia
  • Anno: 2017
  • Genere: Drammatico
  • Durata: 104'
  • Regia: Sergio Castellitto
  • Cast: Jasmine Trinca, Stefano Accorsi, Alessandro Borghi, Edoardo Pesce, Hanna Schygulla