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Il colibrì

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Esterno giorno, Roma. Piove che Dio la manda. Siamo in un bar di San Saba, quartiere quieto nel cuore della città. Sullo schermo scorrono le immagini della vittoria di Giorgia Meloni. Quando arriva l’attore Pierfrancesco Favino indossa una felpa con il cappuccio, ha le tempie rasate e un fungo di capelli in alto: è un po’ criminale è un po’ francescano. Il Libanese s’è fatto prete? “No, il taglio di capelli è propedeutico al trucco”, spiega con l’aria stralunata, perché le riprese del nuovo film sono di notte: “Vivo con una specie di jet lag”. Le occhiaie appesantiscono le ciglia lunghe, spariscono quando il sorriso allaga di luminosità il volto. Lo copre una volta con le mani, quando racconta un suo incubo.

Al bar lo salutano come Picchio, soprannome che gli diede il padre, Aldo. In giornata arriva la notizia che “Nostalgia” di Mario Martone (piaciuto molto alla madre di Picchio, la signora Stella) è la proposta italiana per gli Oscar. L’occasione del nostro incontro è l’uscita di un altro film che lo vede protagonista: “Il colibrì”, dal romanzo di Sandro Veronesi, la storia di un uomo che attraversa perdite terribili e amori assoluti. La regia è di Francesca Archibugi, che Favino incontrò da adolescente, grazie a una professoressa che portava gli studenti a vedere film e incontrare registi: “Chiesi quanto c’era di autobiografico in “Mignon è partita”. Francesca disse: niente. Con mia sorpresa e i compagni che ridevano”.

Partiamo da qui, dalla domanda che il giovane Favino forse farebbe al grande attore ch’è diventato, capace di passare da Bartali a Buscetta, da Craxi ad Ambrosoli, per citare alcuni personaggi storici. Quanto c’è di autobiografico nel suo protagonista del Colibrì? “Non parto dal pensare a cosa c’è di mio in un personaggio, ma alla fine del lavoro capita di scoprirlo. Della parabola di Marco Carrera, il protagonista, mi piace che dopo i fallimenti amorosi, successivi alla morte dell’unica figura femminile che lo capiva, cioè la sorella, lui riconquista un centro di sé nel femminile quando diventa padre e nonno. Io sono cresciuto con tre sorelle, abito il femminile da sempre. Quella capacità di intuire gli elementi dell’altro, capire quando fermarsi in attesa che dopo la furia emotiva del momento arrivi la spiegazione. Con l’età sono diventato più morbido, meno muscolare e nervoso nel far emergere le cose. Femminile? Io non credo all’identità, che le persone siano una cosa sola, né alle divisioni tra maschile e femminile, o fluido, sono divisioni sociali. Sono i contesti a spingerci, sta a noi decidere se restare fedeli a quei contesti o se troviamo valvole di espressione: il mio lavoro è questo”.

Marco Carrera è chiamato Colibrì perché sa volare stando fermo. Lei? “Il soprannome nasce dall’aspetto, minuto, e per la capacità di volare tenendo la posizione. Ho letto il romanzo di Sandro Veronesi prima della pandemia, e ne ho apprezzato il sentimento di resilienza, la pandemia poi l’ha reso più comune. Mi piace lo sforzo di mantenersi saldi e solidi su ciò in cui crediamo; io sono paziente, resiliente riguardo le cose che non voglio barattare: le persone cui voglio bene e i miei valori, che sono piccolo borghesi”.

Mi fa un esempio? “Cose banali, ma ci sono dettagli che poi possono ripercuotersi nel tempo. Ad esempio non lavoro mai nei giorni dei compleanni delle mie figlie”.

Jean Luis Trintignant disse di no a Bertolucci per “Ultimo tango a Parigi”La figlia disse che poi a scuola l’avrebbero presa in giro per le scene di sesso. Pure lei avrebbe detto no? “Il fare o non fare certe scene non è una pruderie di tipo morale, ma la consapevolezza che non sei solo tu nella vita e attorno a te c’è un universo di persone coinvolte. Ma forse, penso oggi, direi di sì, pur di lavorare con Bertolucci”.

 

Per Silvio Soldini ha girato scene molto esplicite in “Cosa voglio di più” diversi anni fa. “Sì, ma la mia nudità è altro. Mi sono trovato più nudo quando ero vestito che non nelle scene di nudo. Quando lavoro non penso di essere io. Dopo, sì, mi rendo conto che attorno mi percepiscono come me. Se in un film muoio, mia madre sta male, se nel film ho bisogno di soldi, lo zio chiama per offrire aiuto...”.

Nel Colibrì la resilienza è messa a dura prova dai traumi della vita. C’è un evento che l’ha segnata a fondo? “Non ho mai veramente elaborato ciò che la morte di mio padre ha generato in me. Fu un evento molto forte, stavo lavorando a “El Alamein”, nel deserto”.

Quanti anni aveva? “Avevo 33 anni. Quasi 33 anni, non ancora 33. Da giovane uomo mi trovai all’improvviso uomo a tutti gli effetti. Ma non mi sono reso conto subito, né poi l’ho ammesso facilmente, che alcune scelte successive potessero derivare da quello. Il piglio, il senso di urgenza con cui ho agito dopo, vengono da lì. Ora se tornassi indietro non farei così”.

Suo padre la chiamava Picchio, per la vivacità. E molti lo fanno ancora. Le sue figlie come la chiamano? “Papà, in genere. “Papo”, quando serve qualcosa. Per studiare, fare una passeggiata, un giro in bici...”.

Cosa le piace fare con loro? “Con la grande, Greta, 16 anni, vediamo film. L’altro giorno Memento di Nolan; si fa domande esistenziali e quel tipo di cinema la intriga. Con lei mi piace parlare, anzi, ascoltare, e leggerla, scrive molto bene. Con Lea, più piccola, ci divertiamo a fare imitazioni, giochi, scherzi telefonici in cui ci fingiamo un’altra persona: in lei rivedo cose della mia infanzia, l’inventarsi la realtà”.

Due folgorazioni l’hanno spinta a fare l’attore: vedere Totò in tv e uno spettacolo teatrale di Lavia. Dopo il liceo ha frequentato l’Accademia, una scelta in contrasto con suo padre, il cui antagonismo però fu uno sprone, ha detto. Lei che padre è? “Quella contrapposizione lo portò a una solitudine emotiva, una scelta difficile, coraggiosa. Per fortuna abbiamo fatto in tempo a ricucire, mettendo al bando i silenzi. Io non ho un figlio maschio, non c’è quella specularità di genere che può produrre conflitto, stimolare orgoglio e indipendenza; con le mie figlie ho un rapporto emotivamente più diretto. Questa estate Greta è andata negli Usa per una vacanza studio: una cosa bella, ma è stato doloroso vederla sulla banchina, da dietro, partire. Il distacco fa male, ma educa all’indipendenza”.

Sui cellulari come vi regolate in casa? “La grande ce l’ha, la piccola non ancora. Ci sono tentativi di regole, ma conta l’esempio. E capire: Greta parla di evoluzione, dice che se chiude gli occhi può mandare un messaggio, io no. Vero. Inutile lamentarsi, serve vigilare se questo va a detrimento di altre attività”.

Nel Colibrì c’è una conversazione tra il protagonista e la figlia sulla morte. Lei come ne ha parlato alle sue figlie? “La piccola sta vivendo proprio il momento in cui ti chiede dove va chi non c’è più. Noi diciamo nel modo più semplice: sulle nuvolette e vedono tutto da lassù. Poi la nuvoletta non basta più”.

La sua compagna è l’attrice Anna Ferzetti. Come l’ha conosciuta? “Ballando, a una festa romana di amici comuni, uno stava lasciando casa”.

Chi ha fatto la prima mossa? “Credo lei, anche se prima io le ho pestato un piede per sbaglio. Ero di spalle mi sono girato e ho detto “scusa”, lei pure “scusa”, e abbiamo preso a ballare. Per noi ballare è un canale di dialogo”.

Lei crede nelle coincidenze? “Sì, penso che ci sia un elemento molto magico nella vita. Le riconosco, ci credo, ma non le inseguo”.

Nel Colibrì, tra le coincidenze radicali, ci sono eventi traumatici per cui la resilienza vacilla. “Il suicidio della sorella del protagonista, come ogni suicidio, è un’esperienza che porta le persone attorno a darsi delle colpe. Se ti porti dentro quella cosa lì, hai voglia a spiegarla razionalmente, ti senti sempre accusato; una parte di te è convinta di essere responsabile, e poi ti chiedi cosa avresti potuto fare perché non accadesse. E dal punto di vista del padre della ragazza è terribile: la perdita di un figlio deve essere terribile”.

Marco Bellocchio ha raccontato lo stupore per il suo provino per Il traditore , dove ha recitato la scena in cui Buscetta piange per i figli. “Spesso pensiamo che la tecnica sia sostitutiva di qualche altra cosa. Nella recitazione, nella scrittura, si crede che là dove non arrivi con l’organicità del tuo sentire, l’empatia, puoi arrivare con la tecnica. No, la tecnica è proprio ciò che ti permette di lasciarti andare...”.

È evidente nel jazz, si studiano le scale per poter improvvisare... “Stavo per arrivare alla musica. A Keith Jarrett, nel famoso concerto di Colonia, quando entra dicono: “È nato suo figlio”. E lui esegue al piano le note che in genere avvisano il pubblico che sta iniziando lo spettacolo, ma quelle note sono già lo spettacolo. Ecco, quella per me è la tecnica. Al cinema significa che se la sceneggiatura è scritta bene tu hai solo da lasciarti andare, quella è l’essenza di un attore, la capacità di empatizzare fino in fondo con ciò che tu non sei, mettendo da parte il giudizio morale o politico verso il personaggio, per abbracciare quello che può significare in quell’istante un evento importante per lui e quindi anche per te”.

Quando ha interpretato un disabile in Corro da te alcuni hanno detto che sarebbe stato meglio vedere un attore disabile. L’inclusività al cinema non rischia di essere ideologica? Altrimenti anche il suo monologo a Sanremo sugli sradicati, recitato con una cadenza straniera, poi diventa appropriazione culturale... “Gli attori esistono da quando Tespi si è fermato, è sceso dal suo carro e ha deciso non di raccontare una storia ma di far finta di esserne il protagonista. Abbiamo firmato un contratto non verbalizzato in cui decidiamo che ci sono esseri umani che decidono di essere altro da sé in modo tale che noi capiamo attraverso le storie di quelle persone chi siamo noi. Non è che per fare Craxi devi essere socialista! O per fare Buscetta devi essere affiliato! Diciamo che mi andrà bene questa cosa nel momento in cui Ferrari lo farà un italiano, Gucci lo farà un italiano; siamo l’unico Paese al mondo in cui ancora oggi attori americani interpretano il ruolo di italiani”.

Lei in quale dei suoi personaggi si è riconosciuto di più? “Di Vittorio, il sindacalista, per le mie origini, pugliesi come lui, e per una attitudine politica che ho sentito vicina. Ma non mi chieda per chi ho votato”.

 

Adesso “Il colibrì” è pronto a spiccare il volo in sala.

Scheda film: Il colibrì

  • Nazione: Italia
  • Anno: 2022
  • Genere: Drammatico
  • Durata: 127'
  • Regia: Francesca Archibugi
  • Cast: Pierfrancesco Favino, Kasia Smutniak, Bérénice Bejo, Laura Morante